Gabriele Mazzoleni (segretario generale Filca-Cisl di Bergamo) e Battista Villa (segretario regionale Filca-Cisl della Lombardia) ci hanno inviato una lettera, pubblicata anche dal quotidiano “L’Eco di Bergamo”, sui fatti di Rosarno e sulla piaga del caporalato. La pubblichiamo integralmente.
Per scrivere una lettera sui fatti di Rosarno occorre innanzi tutto un convinto esame di coscienza. Oltre l’atto privato con la conseguente ammissione di umiltà occorre ricordare chi rappresentiamo, verso chi siamo al servizio, chi garantiamo nella pratica quotidiana del ruolo che la politica o la cronaca ci hanno assegnato. Rosarno è la conferma della scarsa qualità della programmazione economica e legislativa del nostro Paese. In questi anni abbiamo assistito, e ne siamo stati vittime e carnefici, del ritiro della politica dalla trasformazione quotidiana della realtà e del venire meno del ruolo di responsabilità delle parti sociali. A Rosarno, se è vero che lo Stato è morto sarà vero anche che non vi è stata la sepoltura della speranza. Ma un doveroso passo indietro.
Scriviamo rappresentando la Filca Cisl, il sindacato degli edili, e ci preoccupiamo soprattutto di questa organizzazione e dei lavoratori che rappresenta. Tra l’agricoltura e l’edilizia vi sono molti termini in comune. Oltre alla stagionalità dei picchi di produzione, ci unisce anche la grave crisi, i molti pregiudizi sul ruolo sociale del lavoratore edile o agricolo; la lotta per un salario equo nella difficile posizione di invisibili. Per una fabbrica che chiude, vi possono essere le possibilità di un tetto sul quale salire per protesta e un’unica sede dove concentrare la lotta per i diritti. In edilizia e in agricoltura ciò è impossibile, poiché nei cantieri (con i lavori in corso magari sospesi per il fallimento dell’impresa o per il ritiro della certificazione antimafia che consente di operare nelle opere pubbliche) il tetto non è stato ancora costruito. Figuriamoci se i lavoratori agricoli decidessero di protestare nei campi, quello spazio vuoto, non edificato, che molti consideriamo nulla tra una tangenziale e un’altra, quale sarebbe la loro visibilità. Sarebbe una protesta fallita in partenza. Ecco allora che in un contesto simile i termini si ritrovano: caporali, lavoratori migranti, stagioni, sono solo alcuni termini adatti ad entrambi i settori industriali.
A Rosarno si è uccisa anche la cronaca, poiché si è parlato di agricoltura – politicamente più debole – per non parlare di edilizia, di grande edilizia. In Calabria, come nel resto del Paese, lo sfruttamento del lavoro nero, clandestino, schiavizzato, coinvolge anche i grandi cantieri, le opere di ammodernamento che appaltate con la logica del maggior ribasso, nei fatti, obbligano o tentano gli imprenditori senza scrupoli o più deboli a ricorrere a rapporti di lavoro senza regole e senza contratti. Nei grandi e nei piccoli cantieri, soprattutto nella filiera non certificata dei sub appalti, il lavoro nero è pescato nelle sacche di maggiore povertà, nelle tante bidonville metropolitane, nei luoghi dove nessun italiano andrebbe a vivere: nelle città sorte dalla fuga dalle guerre e dalle carestie.
Le città dei poveri sono le agenzie di occupazione temporanea della mafia o della ‘ndrangheta che con estrema capacità organizzativa regolano il sistema del lavoro attraverso i caporali. Il caporalato, da anni da noi denunciato quale fenomeno di sopruso ai danni delle persone e dei lavoratori onesti, in Italia non è un reato penale. Esso infatti è iscritto tra i reati di ordine amministrativo e come tali punito, con ammenda alla fine di un processo che il più delle volte crolla per decorrenza dei termini. Quindi nel ruolo pubblico che noi occupiamo, attraverso il sindacato, proponiamo l’iscrizione del reato di «caporalato» nel Codice Penale, equiparandolo al reato di traffico di esseri umani. La legge nota come Bossi-Fini, seppur da migliorare, punisce in modo assai severo chi compie o copre azioni di immigrazione clandestina, mentre non si pensa che il caporale è il criminale che lega il mondo dei bisogni con il pericoloso mondo del ricatto criminale.
Il caporale è colui che ha spinto migliaia di uomini disperati a vivere nelle fabbriche dismesse, in case di cellophane, nella periferia di Rosarno, vendendo speranze, spacciando salari da fame in condizioni di schiavitù. La Lombardia, con il 4,9%, è tra le ultime regioni di Italia per lavoro clandestino, perché se qui da noi il profitto è stato assunto a sistema ideologico per contrasto vi è una rete di solidarietà molto forte. Oggi la crisi ha svelato che il profitto è un dio pagano caduto in disgrazia e che occorre una nuova forma di economia, urgentemente. Spetta anche al sindacato saper leggere i fatti calabresi come l’ennesimo segnale di trasformazione sociale indispensabile, verso comunità capaci davvero di accogliere e confortare gli ultimi nei diritti e nei doveri di ciascuno.
Forse la prossima stagione di grandi opere edili potrà essere il laboratorio regionale per raggiungere «quota zero» di lavoratori sfruttati, come è stato dimostrato possibile dal modello di alcuni grandi appalti a Bergamo: attraverso gli accordi di regolarità e legalità e grazie alla bilateralità – con tutte le parti sociali in rete – si è tolto spazio alla criminalità, si è tolta l’aria alla prepotenza, si sono respinti i caporali.