Roma
La Federazione si interroga sul ruolo propulsivo che le aree interessate possono avere per rilanciare l’economia territoriale e nazionaloe in un mercato sempre più competitivo
I Distretti Industriali rappresentano un caso di successo dell’economia italiana. Il loro successo si misura anche dal crescente interesse dimostrato a livello internazionale per l’esperienza che, da più parti, è stata evocata come utile modello di riferimento per la promozione e lo sviluppo locale. In particolar modo dal momento in cui, dopo il trattato di Maastricht, il Patto di Stabilità e l’introduzione dell’Euro, il modello macroeconomico di riferimento appare condiviso da tutti gli operatori economici. Certo, i settori d’attività economica risentono di quest’allargamento degli spazi geografici e sono percorsi da alcuni trend di fondo tra i quali si possono annoverare: • Il dispiego geografico della catena del valore dell’ impresa, che prima era prevalentemente concentrata in un definito sito geografico; • La maggiore e crescente integrazione tra i sistemi competitivi dei vari paesi, tanto che risulta sempre più difficile ragionare in una chiave soltanto locale o nazionale ; • La ricomposizione di molti settori su nuove basi. Da qui la ricerca, da parte delle singole imprese, di un maggiore controllo degli sbocchi commerciali, per poter avere il polso della situazione del mercato e non trovarsi impreparati a possibili modifiche dello stesso, di una innovazione continua di sistema e di prodotto, per mantenere e consolidare il vantaggio competitivo disponibile, di un contenimento dei costi a cui seguono forme di esternalizzazione e delocalizzazione produttiva. Non è più un fatto teorico, ma è sotto gli occhi di tutti, che l’introduzione della moneta unica, favorendo una graduale maggiore integrazione di un mercato vasto, per la trasparenza dei prezzi e per la riduzione dei costi di transazione, insieme agli interventi di liberalizzazione dell’offerta e all’azione degli stessi competitori globali, determina una maggiore pressione competitiva, dando nuova spinta ai processi di concentrazione e specializzazione. Questo non esclude la possibilità da parte delle imprese di ritagliarsi delle nicchie di mercato in cui offrire un prodotto altamente specializzato, solo che la dimensione della nicchia non potrà essere locale, visto che il mercato domestico coinciderà sempre di più con quello continentale. La crescita aziendale, nei modi più disparati (acquisizioni, alleanze e fusioni ), diventa allora strategia da perseguire per operare nel mercato e nei suoi segmenti, a tutto campo. Una crescita prima di tutto qualitativa attuando investimenti in efficienza operativa e competenze critiche, ma anche finanziaria, poiché l’intensa competizione determina un livello di rischio più elevato negli investimenti aziendali che dovrà essere coperto con fonti di finanziamento adeguate. Dato questo quadro generale, andiamo ora ad esaminare i distretti industriali , una delle caratteristiche peculiari del nostro sistema produttivo. I distretti industriali, come è noto, sono sistemi produttivi territoriali costituiti da numerose imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, impegnate in diverse fasi e in diversi modi nella produzione di prodotti appartenenti ad una stessa tipologia merceologia. I caratteri distintivi comunemente individuati nei distretti sono, oltre alla numerosità, alla dimensione medio-piccola delle imprese che vi operano e allo spirito e capacità imprenditoriali diffusi, la loro matrice familiare, la valenza sociale ed economica di questo insieme di imprese, le relazioni sistemiche che le legano anche con l’ambiente, la cooperazione, l’emulazione e la competitività che sono alla base dei loro rapporti. La fornitura, quindi, di “servizi reali comuni” erogati da enti consortili o di metamanagement diventa via via sempre più importante. Se questi sono gli elementi comuni, diverse sono pure le differenze che sussistono tra un distretto e l’altro: differenze culturali e politiche, differenze derivanti dalle tipologie di relazioni intrattenute tra le imprese, dal livello tecnologico conseguito , e così via. L’esperienza empirica dimostra che, in certi casi, sono state alcune imprese guida che esternalizzando fasi di processo produttivo hanno generato crescita e sviluppo in termini distrettuali, permettendo prima la nascita di nuove imprese sub fornitrici che poi hanno trovato lo stimolo per intraprendere strade autonome di crescita. In altri casi, le dimensioni minori hanno continuato ad essere la caratteristica di fondo, senza determinare fenomeni di crescite aziendali; la comunità di imprese si è tuttavia sviluppata, dando benessere, facendo leva sulle relazioni , sui rapporti interaziendali, ma soprattutto avvalendosi della guida e dei servizi pregiati (dal credito alla formazione, dallo sviluppo tecnologico ai servizi all’esportazione) offerti dagli organi di metamanagement. Naturalmente, questo diverso focus ( le imprese guida o il sistema di imprese con organi di metamanagement ) dipende da vari fattori e, non ultimo, dalla qualità delle figure imprenditoriali che in quel territorio insistono. Oggi i distretti sono soggetti al vento del cambiamento. Su molti di essi si addensano nubi che non fanno certamente ben sperare sulla continuità del loro ruolo propulsivo per l’economia del territorio che da essi trae giovamento e sviluppo economico e sociale. Il pericolo, in una economia che si va sempre più globalizzando, è che il distretto diventi un polo esclusivamente produttivo, ” una grande fabbrica a disposizione delle reti commerciali”, e quindi sia condannato a misurarsi di continuo con una forte competizione di altri siti produttivi sparsi nel mondo intero, specie con quelli dei paesi emergenti che hanno costi del lavoro molto bassi. Per superare questa situazione occorre che il distretto si apra verso l’esterno e sappia intercettare le reti lunghe della filiera produttiva e soprattutto gli sbocchi commerciali. Apertura all’esterno vuol dire, da un lato, riposizionare le attività della catena del valore delle aziende, mantenendo nel distretto quelle strategiche e che hanno bisogno per essere gestite da manodopera altamente qualificata e, dall’altro, creare sincretismo tra locale e globale. In questo contesto, a nostro giudizio, le iniziative da intraprendere ed il ruolo che dobbiamo sviluppare presuppongono la conoscenza e creazione di innovativi strumenti non solo contrattuali ed il miglioramento delle relazioni sindacali. Attualmente le aree distrettuali da noi censite e che fanno riferimento ai nostri settori (vedi tabelle) occupano circa il 70% della forza lavoro industriale Filca. Al fine di rilanciare l’iniziativa sindacale, la Filca Cisl nazionale, per il settore industria, ha da tempo elaborato una sua iniziativa basata sugli Enti Bilaterali e sulla contrattazione territoriale diffusa su tutto il territorio nazionale. Per quanto riguarda gli ambiti degli Enti Bilaterali ad oggi abbiamo indicato: Andamento di settore; Investimenti di innovazione tecnologica; Normativa di indirizzo industriale; Mercato del lavoro; Formazione professionale; Impiego del fattore lavoro; Dinamiche sul costo del lavoro ; Ambiente e sicurezza così come indicato nel CCNL Legno/Arredamento Industria. Per quanto riguarda gli ambiti della contrattazione territoriale abbiamo indicato: Ambiente e sicurezza; Mercato del lavoro; Orario di lavoro; Formazione; Politiche industriali; Welfare integrativo; Premio di risultato. Occorre ora iniziare la fase di sperimentazione individuando le aree territoriali in cui operare.
Marco Proietti – operatore nazionale Filca
Da Trento una ricetta innovativa per dare maggiore uniformità al settore
Porfido e sviluppo: la Filca propone la gestione ai Comuni della prima fase di lavorazione. Ma le aziende frenano
Gli imprenditori, rappresentati dal presidente della sezione porfido di Assindustria, Marco Stenico, sono d’accordo, a parole, alla creazione del distretto del porfido ma, nei fatti, agiscono in modo contrario. La nascita del distretto del porfido ha bisogno di fatti concreti: la razionalizzazione dell’estrazione impedendo la vendita del materiale grezzo; l’omogeneizzazione dei prezzi di vendita; standard qualitativi uguali per tutti. “Solo con queste premesse sarà possibile far decollare il progetto – afferma Stefano Pisetta, segretario generale Filca di Trento -. Costatiamo però che, negli ultimi anni, le aziende si sono mosse nella direzione opposta”. Infatti, il settore è sempre più frammentato: da 500 cubettisti dipendenti di 10 anni fa, si è passati ad averne meno del 50%. Le aziende, per aggirare la legge sulla tutela dell’integrità fisica dei lavoratori e per ridurre il costo del lavoro, affidano questa lavorazione a lavoratori autonomi, spesso ex dipendenti e lavoratori stranieri e questo comporta anche un aumento del lavoro nero e dell’evasione fiscale. “Lo stesso avviene anche nella prima fase di lavorazione, quella della cernita, – aggiunge Pisetta – dove non vengono introdotte nuove tecnologie che renderebbero meno pesante il lavoro ed i rischi per la salute dei lavoratori. C’è da notare, inoltre, che negli ultimi anni si è ridimensionato sia il ruolo dei consorzi che dell’Espo (ente sviluppo porfido), con una grande riduzione delle aziende associate”. “Rispetto alla costituzione di un tavolo permanente delle attività estrattive esprimiamo il nostro consenso – prosegue il sindacalista Filca -, ricordando che è stato proprio il sindacato a proporlo all’assessore Benedetti. Se il tavolo diventasse legge, l’intenzione del sindacato sarebbe quella di esercitare un ruolo di peso all’interno dello stesso: poiché solo con la concertazione, il settore del porfido può fare un salto di qualità. Sosteniamo la tassa a carico delle imprese a compensazione dei danni ambientali ma la proposta non può essere liquidata, come sostiene Stenico, affermando che i concessionari già versano un canone all’ente pubblico: l’ammontare medio del canone d’affitto versato ai comuni è inferiore al 3% del loro fatturato e, di conseguenza, di gran lunga insufficiente a coprire i disagi ambientali”. Da sempre, nel settore del porfido è valsa la regola di privatizzare i profitti e socializzare i costi: quando si tratta di realizzare le infrastrutture (strade, acquedotti, mense ecc.), è la Provincia a pagare e le aziende che sono proprietarie delle cave (il 20%) non pagano nessun canone al comune. Per ciò che riguarda la questione delle aste, la legge, che secondo Stenico avrebbe bisogno solo di un re-styling, per il sindacato deve essere rivista in toto, partendo dal fatto che la risorsa è pubblica e va gestita nel pieno rispetto dell’interesse generale della comunità. “La nostra proposta – continua Pisetta – è che siano i comuni a gestire la prima fase di lavorazione, con la successiva vendita del materiale grezzo alle aziende per la trasformazione, dando così la stessa opportunità a tutte”. “Nel caso in cui si prosegua sulla via delle concessioni ai privati, – conclude Pisetta – proponiamo che la quantificazione del canone d’affitto venga calcolata su 3 parametri essenziali e facilmente rilevabili: la quantità estratta, la qualità del materiale estratto e la quantità di scarto realizzato, dal momento che oggi anche lo scarto rappresenta profitto. Solo così si andrebbe a definire un canone equo e stabilito oggettivamente”.
Claudio Sottile
Gli obiettivi raggiunti grazie ad una seria politica industriale
Intesa vincente per l’area murgiana sul mobile imbottito. E in Puglia si lavorano anche marmo e pietra
Sono distribuiti lungo tutto il territorio regionale, interessano tutte le categorie produttive seguite dalla Filca e comprendono aziende che impiegano oltre 144mila lavoratori, secondo il censimento Istat del 2001. Ecco perché anche in Puglia i distretti produttivi rappresentano uno strumento fondamentale per lo sviluppo e l’economia del territorio, in una regione caratterizzata da una straordinaria articolazione del sistema produttivo ma anche da problemi ancestrali, come le infrastrutture e l’accesso al credito, che ne limitano le potenzialità. I distretti pugliesi sono disciplinati dalla legge regionale numero 2 approvata dalla vecchia giunta nel gennaio del 2003. Nei 12 articoli che la compongono le novità più rilevanti sono rappresentate dal ruolo dei Comuni, ai quali sono demandate le funzioni sulle aree industriali, e da quello di Finpuglia (l’Istituto finanziario regionale). A 3 anni di distanza da quella legge è arrivato un atto di indirizzo in materia dei distretti produttivi e di riforma dei Consorzi, approvato dalla giunta insediatasi un anno fa, che intende modificare profondamente l’impianto della legge. Il documento in particolare individua 4 soggetti: le Agenzie regionali Arti (tecnologia e innovazione) e Arsvi (sviluppo), i consorzi Asi nella forma di Enti Pubblici economici e i Distretti produttivi nella forma di società consortili a capitale misto pubblico e privato. Inoltre il nuovo governo regionale, stando a quanto enunciato nell’atto di indirizzo, intende recuperare le esperienze positive di Asi e Pit, valorizzare il ruolo delle imprese singole o associate e velocizzare e semplificare le procedure per realizzare aree di sviluppo industriale. Queste ultime interessano la Puglia in lungo e in largo: il marmo di Apricena, la pietra nel Salento ed il mobile imbottito nell’area murgiana, giusto per citare le 3 aree più significative. “Per il settore del salotto il nostro pressing è stato asfissiante – ha dichiarato il segretario generale della Filca-Cisl di Puglia, Emilio Di Conza – ed ha portato a risultati che definirei più che soddisfacenti. Penso all’Accordo di Programma Quadro della Puglia del 2004, e all’intesa ministeriale che estende gli ammortizzatori sociali anche ai lavoratori delle piccole aziende in crisi, quelle fino a 15 dipendenti. Ora la firma del protocollo d’intesa dà una spinta importante alla costituzione di un distretto interregionale del mobile imbottito tra la Puglia e la Basilicata. Parliamo di un settore che costituisce una larga fetta dell’economia di numerosi comuni della murgia barese e tarantina. Le aziende di questo territorio esportano circa l’80% dei prodotti, il 16% della domanda mondiale. Ma se si pensa che l’export cinese dei salotti nel 2004 è cresciuto del 50% rispetto ai mesi precedenti, ci rendiamo conto di come solo una seria politica industriale regionale e nazionale, un distretto produttivo competitivo e sano, possano permettere al settore di tirare il fiato”. Nel 2003 i dipendenti erano 14 mila, ridotti agli attuali 11.500 suddivisi in 400 aziende: un processo irreversibile? “Ritengo di no – assicura Di Conza – ma bisogna crederci e guardare lontano. Per esempio istituendo una Fiera del salotto così come contemplato nel Pit della Murgia e nell’Accordo di Programma Quadro del dicembre 2004. Lo stesso discorso vale per il marmo e la pietra, che costituiscono una fetta fondamentale dell’economia di grosse zone come Trani, il Salento, il Gargano”. Ma di strada da fare ce n’è tanta, e tutta in salita. Basti pensare che l’Ice (l’Istituto per il Commercio con l’Estero) ha escluso il marmo della Puglia dal programma per la promozione del marmo italiano all’estero, che si terrà a maggio, includendo invece i prodotti di Toscana, Lazio e Sicilia. Il motivo? Le troppe inchieste giudiziarie che interessano il marmo pugliese.
Vanni Petrelli