“Promuovere il sociale attraverso i Fondi integrativi” è il tema scelto dalla Filca per un incontro che si è tenuto presso il Centro Studi Cisl di Firenze. Hanno partecipato Pier Paolo Baretta, ex segretario generale aggiunto della Cisl, Presidente dell’Associazione Riformismo e Solidarietà (ReS) e Vicepresidente Fondazione Enpaia; Raffele Bruni, Presidente BM & C.; il segretario generale della Filca, Franco Turri. I lavori sono stati aperti dal segretario nazionale Filca, Salvatore Federico. Di seguito la trascrizione di alcuni passaggi degli interventi dei tre relatori.
Raffaele Bruni
Il giudizio sui fondi pensione è sicuramente positivo: i fondi costano poco e investono in modo fruttuoso. In Italia i Fondi hanno perso il 2/3% contro il 20% della Germania. Dobbiamo metterci in testa che i fondi sono uno strumento del welfare che partono da una base solidaristica, non sono uno strumento finanziario. La mia impressione è che il lavoro è stato meraviglioso ma siamo arrivati tardi sul mercato del lavoro, il welfare è legato a soggetti che lavorano solo a tempo pieno. È un welfare che nasce per una forza lavoro stabile, ci dobbiamo chiedere se il sindacato si deve occupare anche di altro. Stanno aumentando le aree grigie in cui sono un po’ dentro e un po’ fuori dal lavoro per ragioni di continuità, per problemi di cura, per licenziamento o precarietà. Una riflessione va fatta: dobbiamo fare un censimento dei bisogni e dare risposte contrattuali. Dobbiamo immaginare un welfare che è la terza gamba, cioè il welfare delle opportunità. Questo non è un tema del governo, in Italia il welfare è stato determinato dal sindacato, non dal governo. Va fatta una stagione di lotta sull’età pensionabile: il problema non è l’abbassamento dell’età ma la la creazione di un ponte al pensionamento.
Pier Paolo Baretta
Il risultato dei fondi è positivo, ma c’è un’insufficienza collettiva sul ruolo della previdenza. Lo Stato da solo non ce la fa. Il livello di domanda è destinato ad essere crescente, con i livelli demografici che abbiamo non riusciamo ad avere prestazioni adeguate: se pensiamo di mantenere e migliorare bisogna avere le due gambe della previdenza. Lo sviluppo della democrazia economica passa attraverso gli investimenti in economia reale: ci sono 230 miliardi di patrimonio in mano alla previdenza, questa cifra in parte è stata investita senza una direzione strategica, in buona parte in Bot e Cct, una parte in investimenti. Un altro problema è che i fondi sono troppi e troppo piccoli. Gli investimenti vanno fatti in una logica di investimento di sistema. I due aspetti che abbiamo davanti sono previdenza e sanità: la previdenza sanitaria fino a che punto deve essere separata da quella previdenziale? Questo governo ha in piedi la trattativa con Veneto, Emilia Romagna e Lombardia per il federalismo. La vera discussione che manca oggi è una discussione seria sul federalismo: che conseguenza avrà l’autonomia sulle prestazioni? Il problema è la intermediazione sociale, altrimenti si lascia spazio alla disintermediazione. Il diritto alla malattia, al riposo e alla maternità, dovrebbero diventare universali e fuori dalla contrattazione. Sarebbe interessante riprendere in mano il delegato alla sicurezza trasformandolo in un delegato di welfare. Penso che la proposta sia la flessibilità in uscita. La quota 100 mette un minimo di 38, il lavoratore invece deve fare una scelta personale in base alle proprie esigenze, la flessibilità in uscita è libertà.
Franco Turri
La battaglia sui fondi vuol dire convincere noi stessi. Fare una battaglia culturale è rivedere le nostre priorità, laddove gli aumenti salariali si riducono mentre si ampliano gli spazi per il welfare. La Cassa edile nasce per pagare l’indennità di disoccupazione, nasce dal welfare. Dobbiamo parlare ai lavoratori che incontriamo ma anche a quelli che non incontriamo, a quelli delle cooperative che lasciano il Tfr in azienda. Battaglia culturale significa portare questi strumenti al centro della discussione. Dobbiamo partire dalle origini: la parola welfare vuol dire benessere sociale culturale, e la cosa più importante è individuare i bisogni. La parola “integrativo” è perché bisognava mantenere centrale il pubblico. Per me integrativo vuol dire arrivare dove l’altro non arriva e quindi mettere insieme le risorse. Le Casse edili erogavano oltre 200 tipologie di prestazioni diverse, ma bisogna chiedere se erano utili, bisogna diversificare l’offerta in base alla domanda. Per noi la sanità integrativa deve essere uguale per tutti ma i bisogni sono diversi. Non ci devono essere doppioni ma una vera integrazione dell’offerta, ci deve essere una regia che non c’è. Il welfare deve essere in sintonia con le età della vita, dalla culla alla tomba, ma per fare questo bisogno non essere conflittuali ed intervenire in modo integrato e coordinato. La contrattazione deve partire da questo, ma è necessario un percorso culturale notevole. Ognuno costruisce il proprio fondo, ma ci si ferma lì, senza visione generale di contrattazione a servizio della comunità. Ragionare sulle pensioni vuol dire che non tutti i lavori sono uguali. Ragioniamo su come accompagnare i lavoratori e su come assumere. Potrebbero essere i tempi di costruire una bilateralità anche sugli impianti fissi, che potrebbe essere democrazia economica. Individuare spazi e opportunità anche per il secondo livello di contrattazione. È una scelta contrattare in questo modo, vogliamo arrivare a far sì che la democrazia economica sia cogestire il lavoro, in un’azienda che ha responsabilità sociale. Attraverso le battaglie si possono costruire giustizia, reciprocità, comunità. Dobbiamo pensare l’azienda come qualcosa che fa crescere il territorio, il territorio deve riconoscere e difendere i propri lavoratori e aiutare le aziende nell’innovazione e nell’assistenza ai lavoratori, dentro e fuori l’azienda. Dire che siamo una forza importante nella redistribuzione e quindi nella costruzione di giustizia, fare tante piattaforme e tanta contrattazione, vuol dire costruire un mondo più giusto.