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SALARI ITALIANI TRA I PIU’ BASSI DELL’OCSE

SALARI ITALIANI TRA I PIU’ BASSI DELL’OCSE

Salari italiani tra i più bassi nella classifica dei Paesi Ocse. In classifica figuriamo al 23/o posto, dietro non solo a paesi come Stati Uniti, Germania, Francia e Regno Unito, ma anche ad altri paesi europei che sembrerebbero in maggiori difficoltà economiche, come Grecia, Irlanda e Spagna. A conti fatti, guadagnamo il 16,5% rispetto alla media dei trenta Paesi che fanno parte dell’organizzazione di Parigi. È quanto risulta dal Rapporto ‘Taxing Wages’ dell’Ocse.
Il salario annuale netto del lavoratore medio è in Italia di 22.027 dollari, contro i 26.395 della media Ocse, i 28.454 della Ue a 15 e i 25.253 della Ue-19. La classifica riguarda il salario netto annuale medio di un lavoratore single senza carichi di famiglia. È calcolato in dollari e a parità di potere d’acquisto. Se si guarda alla classifica del guadagno medio di un lavoratore con famiglia, unico percettore di reddito con a carico coniuge e due figli, il reddito netto degli italiani sale a 26.470 euro ma resta inchiodato, anche in questo caso, al 23/o posto della classifica Ocse.
Il rischio è che senza modifiche strutturali, il lavoratore italiano resterà ancora a lungo a tasche vuote. Bisogna “aumentare la produttività e scalare le tasse” per “dare al salario italiano una sua giusta dimensione”. Questo il commento del segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, a proposito dei bassi salari, che – avverte il numero uno di via Po – sono dovute a due ragioni:  la bassa produttività e e l’eccessivo carico fiscale.
Complessivamente, nel 2009, l’anno della crisi economica internazionale, i redditi reali, prima di tasse e contributi, sono diminuiti in dieci Paesi su trenta. Tra questi figura l’Italia dove il calo è stato dell’1,1%. La crisi, però, ha fatto sentire i suoi effetti anche sul mercato del lavoro. Nel primo trimestre 2010 il tasso di disoccupazione in Italia è salito all’8,6%, con un aumento dell’1,2% rispetto allo stesso periodo del 2009.  In Italia a marzo, ricorda ancora l’Ocse, il tasso di disoccupazione è salito all’8%, in aumento dello 0,2% rispetto a febbraio e dell’1% rispetto allo stesso periodo del 2009.
Nei 30 Paesi membri dell’organizzazione, spiega ancora l’organizzazione parigina, il tasso di disoccupazione a marzo è rimasto stabile all’8,7%, con picchi in Spagna (19,1%), Slovacchia (14,1%) e Irlanda (13,2%). Nel G7, il tasso di disoccupazione è rimasto all’8,3% come in febbraio, nell’Unione europea al 9,6% e nell’area euro al 10%. Dati che, nel loro insieme, segnalano l’esigenza di una strategia comune per il rilancio dell’occupazione.
Ne è convinto il segretario confederale della Cisl Giorgio Santini, che in una nota sottolinea come “l’aumento di un punto percentuale del tasso di disoccupazione negli ultimi 12 mesi, nel nostro Paese, sarebbe stato molto più pesante senza l’estensione degli ammortizzatori sociali e l’azione concertata tra Governo, Regioni, parti sociali”. Santini – che ricorda i forti squilibri del mercato del lavoro italiano soprattutto sul fronte della disoccupazione giovanile (in forte crescita) e dell’elevato numero di contratti a termine e a progetto non rinnovati – sottolinea come “di fronte alla crisi globale” appaia “sempre più urgente l’adozione di una rinnovata strategia europea per il rilancio dell’occupazione. Dobbiamo rafforzare la concertazione con le parti sociali – continua il sindacalista – a tutti i livelli per ridurre la segmentazione del mercato del lavoro ed agevolare le transizioni lavorative mettendo al centro la crescita ed il riconoscimento delle competenze”.
“A dieci anni dall’adozione della Strategia di Lisbona è sempre più necessario un coordinamento delle politiche europee per l’occupazione attraverso il quale governi e parti sociali – conclude Santini – sappiano interagire per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e soprattutto per rafforzare settori, che contribuiscano a far uscire l’Europa dalla crisi come la green economy, i servizi alle persone, i comparti manifatturieri più innovativi, la ricerca”.
A proposito di tasse, invece, il loro peso delle trattenute sui salari, il cosiddetto cuneo fiscale che calcola la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto effettivamente finisce in tasca al lavoratore, è in Italia al 46,5%. Nella classifica dei maggiori trenta Paesi, aggiornata al 2009, l’Italia è al sesto posto per peso fiscale sugli stipendi, dopo Belgio (55,2%), Ungheria (53,4%), Germania (50,9%), Francia (49,2%), Austria (47,9%). Il peso di tasse e contributi sui salari in Italia è rimasto stabile dal 2008 al 2009, registrando solo un lieve (-0,03%). L’Italia occupa infatti nella classifica Ocse la stessa posizione, la sesta, rispetto all’anno precedente. In Italia, precisa ancora l’Ocse, hanno un impatto rilevante sulla differenza tra salario lordo e netto anche i cosiddetti ‘pagamenti obbligatori non fiscalì, rappresentati dal tfr, che aumentano la pressione di un ulteriore 3%. “Aggiungendo questa variabile – spiega un economista dell’ Ocse in un incontro con la stampa – il prelievo obbligatorio sui salari in Italia sale oltre il 49%, portando il Paese a superare la Francia in termini di quota di imposizione”.
I ‘pagamenti obbligatori non fiscali’, secondo la definizione dell’Ocse, sono pagamenti che il lavoratore o il datore di lavoro devono versare per legge, ma non al governo, come i contributi in fondi pensione privati o pagamenti per polizze assicurative. Il loro impatto sui redditi delle famiglie, e sul costo del lavoro, è differente da quello delle imposte tradizionali, dato che spesso si tratta di contribuzioni nominali, che il lavoratore riottiene quando lascia il posto o va in pensione (come, appunto, nel caso del Tfr).
(dal sito www.conquistedellavoro.it)

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