Edilizia e risparmio energetico, sì ai materiali ecocompatibili

Edilizia e risparmio energetico, sì ai materiali ecocompatibili

Roma

Ridurre i consumi si può attraverso nuove tecnologie e l’utilizzo di energie alternative. Benefici per quanti favoriscono l’isolamento termico al momento della ristrutturazione.
Pesenti: “Serve un patto con i costruttori per rinnovare le imprese e garantire la professionalità dei lavoratori”

Il binomio innovazione tecnologica e sviluppo sostenibile rappresenta una chiave di svolta per il futuro. Utilizzando tale chiave nella costruzione dei fabbricati e grazie ai materiali edilizi oggi disponibili si può risparmiare fino al 40% sull’impiego totale del combustibile. Infatti, buona parte di tutta l’energia utilizzata per acqua calda e per riscaldare un appartamento viene dispersa da strutture quali muri, finestre, tetto.

In Italia, il decreto legislativo 192 del 19 agosto 2005, in attuazione della Direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico in edilizia, ha introdotto l’obbligo del rilascio del certificato energetico per i fabbricati di nuova realizzazione. E’ un aspetto molto importante per il settore dell’edilizia e può essere esteso anche agli edifici più datati (che potranno così usufruire dei benefici previsti dalla Finanziaria) se, al momento della ristrutturazione, viene fatto uso di materiali che favoriscono l’isolamento termico e le tecnologie a basso impatto ambientale. Il concetto di sostenibilità, infatti, permette di ridurre i consumi attraverso l’utilizzo di energie alternative. Un modello di sviluppo sostenibile è necessario per garantire a noi e alle future generazioni le stesse risorse e la stessa qualità di vita. “Si deve intervenire contemporaneamente in tutti i settori – afferma l’architetto Gian Carlo Magnoli, ricercatore del Mit (Massachussetts institute of technology) di Boston e responsabile del laboratorio casa di Servitec (Servizi per l’innovazione tecnologica), polo tecnologico di Bergamo – e nel campo dell’edilizia ci sono notevoli margini di miglioramento”. Gian Carlo Magnoli collabora con La Filca (gruppo di lavoro sui temi della sostenibilità ed edilizia eco-compatibile) e nel suo studio di progettazione “Magnoli & Partners”, l’architetto si occupa di edifici e prodotti del futuro: un’innovazione che ha come fine lo sviluppo sostenibile tramite la progettazione di costruzioni di ultima generazione usando componenti che garantiscono migliori prestazioni, maggiore automazione, basso consumo energetico ed una notevole riduzione dell’inquinamento. “Il binomio innovazione tecnologica e sviluppo sostenibile – prosegue Magnoli – rappresenta una chiave di svolta per il futuro, utilizzando criteri edilizi e materiali disponibili al giorno d’oggi, si può risparmiare fino al 40% sull’impiego totale di combustibile. Infatti, una buona parte di tutta l’energia utilizzata per l’acqua calda e per riscaldare, in una stagione, un appartamento, viene dispersa dalle strutture (muri, finestre, tetto) e dall’impianto”. Occorre quindi, secondo l’architetto, evitare questa dispersione con l’uso di elementi edilizi complessi sfruttando l’alto isolamento termico delle pareti, del tetto, dei serramenti e favorire le tecnologie a basso impatto ambientale ed il sole. “Già in alcuni Paesi del mondo – continua Magnoli – vengono realizzati fabbricati a basso consumo energetico che hanno un impiego di soli 30Kw/h per metro quadro per anno, contro i 250Kw/h annuali per metro quadro di un edificio costruito negli anni ’60-’70”. Tra questi Paesi troviamo l’Inghilterra che dal 1999 ha adottato questa politica ed anche il Comune di Bolzano che incoraggia questo progetto ottenendo risultati eccellenti e riuscendo a vendere le quote in avanzo previste dal Protocollo di Kyoto”. Un materiale fondamentale è il legno, che grazie alle sue caratteristiche, permette la realizzazione di grandi strutture eco-compatibili. In Italia esistono già molti esempi di architetture che sfruttano questo materiale perché è rinnovabile, ricresce e favorisce l’assorbimento di CO2. Nel mondo, in particolare in Germania, Stati Uniti e Canada, le costruzioni in legno raggiungono anche l’80%. “Il ricorso a queste case passive, (quelle che sfruttano sistemi e materiali eco compatibili) – conclude Magnoli – è sempre più auspicabile poiché consente, oltre ad un risparmio del 90% sulle bollette, con solo il 10% in più dei costi di realizzazione, anche la riduzione delle emissioni di anidride carbonica e ciò significa meno inquinamento e quindi più benefici della salute pubblica”. “Facendo riferimento alla normativa – afferma Domenico Pesenti, segretario generale della Filca nazionale – se ben applicata può cambiare profondamente l’edilizia in diversi aspetti: qualificare ed innovare le imprese dando la possibilità ai lavoratori di una migliore professionalità e tutela occupazionale, con l’impiego delle nostre scuole edili a fare formazione e ricerca sul tema; garantire un prodotto di qualità a tutela del consumatore, sia esso pubblico che privato; dare un’immagine positiva del settore che non verrebbe più visto come distruttore dell’ambiente, ma rispettoso della compatibilità ambientale e alla ricerca e al servizio di uno sviluppo equilibrato”. “E necessario – conclude Pesenti – che venga fatto un patto con i costruttori in cui si ponga l’attenzione proprio su questi problemi ed abbia come obiettivo quello di incentivare, attraverso l’uso degli enti paritetici, esperienze che mettano al centro ‘ricerca, innovazione, formazione professionale, tutela del lavoratore e del consumatore, qualificazione e promozione delle imprese più sensibili e corrette”.

Protocollo Kyoto: sfida intelligente, ma di è ancora molto lontani………
I dati prima di tutto. Gli stati che hanno firmato il protocollo di Kyoto si erano impegnati a ridurre le emissioni del 5% entro il 2012. E’ solo il 10% di quello che servirebbe da qui al 2050. Ma non ci stanno riuscendo: nonostante il crollo economico dei paesi dell’Est Europa sono fermi ad un -3,3%. E globalmente il mondo, in primis grazie al contributo dei paesi che non fanno parte del Protocollo di Kyoto, va ben peggio ed emette il 28% “gas serra” in più che nel 1990. E il futuro è il seguente: nel 2030, a meno che non ci rimbocchiamo le maniche, emetteremo 40 milioni di tonnellate di CO2. Cioè il doppio che nel 1990. E circa 4 volte che nel 1970. Come insegnano i rapporti Ipcc, questo avrà precise conseguenze sul nostro pianeta: temperature in netto aumento, livello del mare in salita, ciclo idrogeologico modificato, ripercussioni profonde sugli ecosistemi. E costi che secondo il rapporto preparato dall’economista sir Nicholar Stern per il governo inglese oscilleranno tra il 5 e il 20% del Pil mondiale. Un’enormità. Secondo un rapporto dell’agenzia ambientale delle Nazioni Unite, l’Unep, i costi delle sole catastrofi climatiche, dagli uragani alle alluvioni, alla siccità, raddoppieranno ogni 12 anni ed entro il 2040 potranno raggiungere un picco di 1000 miliardi di dollari in un anno: cinque volte quanto successo nel nerissimo 2005.
Ed è per questo che Kofi Annan è venuto alla conferenza sul clima di Nairobi per dire che il re è nudo. Che c’è “mancanza di leadership politica” nel processo di Kyoto, che “la lotta ai cambiamenti climatici deve essere importante come quella del terrorismo”. Che è una cosa seria, cioè. Tutti si dicono d’accordo. Cina ed India hanno mostrato di voler collaborare, ma senza rinunciare al diritto di intoccabilità riservato loro da Kyoto. La Russia ha proposto di lasciare la possibilità di riduzioni volontarie delle emissioni, ma la “pratica” è stata rimandata al vertice del 2007, che si terrà a Bali. L’Australia (che non ha ratificato Kyoto) mostra di essere pronta a qualche concessione. E gli Stati Uniti sono andati avanti nella linea Bush: ridurre le emissioni farebbe male all’economia più grande e più inquinante del mondo.
Nessuno lo dice apertamente ma nonostante gli applausi, le strette di mano, il dodicesimo vertice delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico si è chiuso discutendo sulle questioni procedurali e rinviando le trattative per il post Kyoto ad un futuro indefinito: chi dice il 2007, chi il 2008, chi il 2009. Per concludere tra il 2010 e il 2012. Ma l’accordo riguarda solo i paesi industrializzati, che oggi producono appena il 31% delle emissioni e lascia fuori quelli in via di sviluppo, che nel 2050 peseranno per il 62% delle emissioni globali. Nel protocollo di Kyoto c’è scritto che le negoziazioni sulla ridefinizione del protocollo, il cosiddetto articolo 9, inizieranno nella seconda conferenza dopo l’entrata in vigore del protocollo. Cioè in quella che si è appena conclusa. Ma non è successo e se tutto andrà bene si potrà trovare una intesa sull’avvio delle consultazioni sull’articolo 9 nel 2008. Altri due anni per iniziare a discutere. E altri due per trovare una qualche intesa, che ovviamente sarà un “primo passo”.
La buona notizia è che non tutti aspettano il protocollo di Kyoto per agire. La Germania ha annunciato l’intenzione di ridurre le emissioni del 40% entro il 2020, la Gran Bretagna ha inserito nel discorso della Corona la promessa formale di approvare una legge che tagli del 60% le emissioni entro il 2050. La Francia da parte sua ha già approvato una legge che promette una riduzione del 75% entro il 2050. Anche l’Italia ha tutta l’intenzione di muoversi in questa direzione, con un’attenzione particolare per il Sud del Mondo. Anche se ad oggi non ha le carte in regola. Dovrebbe ridurre le emissioni del 6,5%, le sta aumentando del 12,1%, del 16% considerando le sole emissioni da combustibili fossili. E secondo l’Agenzia europea per l’ambiente non ce la farà comunque a centrare l’obiettivo di Kyoto: al massimo scenderà al +0,7%. Il 16 novembre il ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraio Scanio ha dichiarato “che non è sostenibile una campagna sul clima che non sia unita alla lotta alla povertà”. Ha aggiunto “che è per questi motivi che l’Italia ha proposto la creazione di un fondo per fornire energia, pulita o al massimo a basso impatto, per i 2 miliardi di persone che non ce l’hanno”. Ma l’Italia non si fermerà a questo: è pronta ad impegnarsi nelle battaglie avviate dai partner europei con i quali condivide l’obiettivo di stabilizzare l’aumento della temperatura a 2 gradi sopra i livelli pre-indutriali. Ma visti i tempi del protocollo di Kyoto, è una partita che rischia di essere persa prima del 2050. A meno di uno scatto tuttora possibile. In teoria.

Paolo Acciai – segretario nazionale Filca

Il Governo si interroghi seriamente sullo stato di attuazione del trattato
Il Protocollo di Kyoto ratificato da 153 paesi ed entrato in vigore, in Italia, il 16 febbraio 2005 impegna i paesi industrializzati e quelli ad economia in transizione (i paesi dell’Est europeo), raccolti in un apposito elenco di 38 paesi (annesso B del Protocollo), a ridurre le loro emissioni totali di gas serra del 5% entro il 2012. La riduzione complessiva del 5% è ripartita in maniera diversa tra i paesi. Per l’Ue la riduzione è dell’8%, per gli Stati Uniti la riduzione prevista sarebbe del 7% e per il Giappone del 6%. Per la Federazione Russa, l’Ucraina e la Nuova Zelanda non è prevista alcuna riduzione, ma solo una stabilizzazione. Possono, invece, aumentare le loro emissioni fino all’1% la Norvegia, fino all’8% l’Australia e fino al 10% l’Islanda.
Nessun tipo di limitazione alle emissioni di gas ad effetto serra è previsto per i paesi in via di sviluppo. Il protocollo individua alcuni settori prioritari per la riduzione delle emissioni:
energia, intesa come settore di utilizzo di combustibili fossili nella produzione e nell’impiego dell’energia (impianti energetici, industria, trasporti), che include anche le emissioni non controllate di fonti energetiche di origine fossile (carbone, metano, petrolio e derivati);
processi industriali, intesi come quelli esistenti nell’industria chimica, metallurgica, nell’estrazione di prodotti minerali, di idrocarburi alogenati, di esafluoruro di zolfo, nella produzione e uso dei solventi;
rifiuti, intesi come discariche sul territorio, gestione di rifiuti liquidi, impianti di trattamento ed incenerimento.
Ai fini dell’attuazione degli impegni sulla limitazione delle emissioni dei gas ad effetto serra, il Protocollo di Kyoto prescrive che i paesi sviluppati e quelli in economia in transizione debbano elaborare ed attuare politiche e azioni operative, quali:
– incrementare l’efficienza energetica nei più rilevanti settori dell’economia e aumentare le capacità di assorbimento dei gas ad effetto serra rilasciati in atmosfera (azioni di riforestazione);
– eliminare i fattori di distorsione dei mercati (incentivi fiscali, tassazioni, sussidi) che rendendo più conveniente l’uso dei combustibili fossili favoriscono le emissioni di gas ad effetto serra, e incoraggiarne, invece, con riforme politico-economiche adeguate, la riduzione;
– predisporre misure settoriali in agricoltura e nelle fonti rinnovabili di energia, per promuovere sia forme di gestione sostenibile di produzione agricola sia la ricerca, lo sviluppo e l’uso di fonti di energia rinnovabile;
– predisporre misure specifiche per ridurre: le emissioni di gas effetto serra provenienti dai trasporti; le emissioni di metano provenienti da discariche di rifiuti e da perdite dei metanodotti; le emissioni di quei gas ad effetto serra lesivi anche dell’ozono stratosferico che provengono dal traffico aereo e dal traffico marittimo.
Inoltre, le misure nazionali (dei paesi dell’annesso B) possono essere integrate da programmi di cooperazione fra paesi sviluppati e paesi ad economia in transizione. In particolare, la cooperazione dovrà riguardare lo scambio di esperienze realizzate, di informazioni e di conoscenze acquisite nell’attuazione delle rispettive politiche e misure operative.
Per l’attuazione del Protocollo, le forme di cooperazione all’interno dei paesi sviluppati, e tra paesi sviluppati e in via di sviluppo, possono svolgersi attraverso alcune modalità, anche note come “meccanismi flessibili”.
I meccanismi flessibili includono progetti di protezione del clima in altri paesi sviluppati (Joint implementation), oppure in paesi in via di sviluppo (Clean develompment mechanism), nonché il commercio internazionale dei diritti d’emissione (International emissions trading). Con questi meccanismi, il Protocollo di Kyoto permette a ogni paese di farsi accreditare le riduzioni di emissioni conseguite con progetti di protezione del clima realizzati all’estero.
Una efficace applicazione del Protocollo presuppone un coinvolgimento attivo non solo dei paesi industrializzati, ma anche dei paesi caratterizzati da una rapida industrializzazione e di quelli in via di sviluppo.
Questi stati infatti, sebbene nel 1997 fossero responsabili di una bassa quota delle emissioni globali, stanno ora diventando i maggiori emittenti di gas ad effetto serra. E gli Stati Uniti D’America, che non hanno sottoscritto il Protocollo, hanno scelto invece la strada basata su accordi bilaterali volontari.
Di fatto, oggi, solo l’Unione Europa ha intrapreso azioni e misure concrete per la lotta ai cambiamenti climatici. Tale situazione non solo rischia di non consentire il raggiungimento degli obiettivi ambientali previsti dal protocollo di Kyoto, ma anche di determinare ripercussioni economiche sui sistemi produttivi europei e su quello italiano in particolare, compromettendo la loro competitività. Si pone quindi l’esigenza di aprire una seria riflessione sullo stato di attuazione del Protocollo di Kyoto, di cui il Governo si dovrebbe fare portatore in sede europea, sia relativamente al contesto internazionale sia con riferimento a quello nazionale.

Laura Palomba – Fit nazionale

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