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L’Italia rischia di restare a piedi

L’Italia rischia di restare a piedi

Intervista a Raffaele Bonanni
“I TRASPORTI – insieme all’innovazione tecnologica, alla ricerca, alla scuola e alla formazione – sono un punto strategico della nostra iniziativa sindacale”. Così Raffaele Bonanni , segretario confederale Cisl, spiega il tema al centro del convegno sulle reti transeuropee che si è tenuto ieri a Roma. “Su questo fronte l’Italia guardia all’indietro, non compete, i prodotti su cui tradizionalmente il Paese era forte scendono in graduatoria. E questo, in parte, è dovuto anche all’inefficienza e ai costi elevati del nostro sistema dei trasporti”.
Bisognerebbe investire di più? Sì, al di là dell’iperbole cui il presidente del Consiglio fa ricorso ogni volta per annunciare non so quali investimenti, la realtà è che siamo inchiodati ad una situazione di inoperosità. E questo nonostante le autorità europee da un po’ di anni ci raccomandino di lavorare a questo obiettivo, dandoci anche delle direttive e dei progetti su cui camminare. Bruxelles ci dà anche dei tempi? Strettissimi: entro il 2010 dobbiamo essere in grado di avviare la costruzione di ferrovie, razionalizzare l’uso dei nostri aeroporti (che sono tanti e mal collegati), migliorare lo sfruttamento delle vie del mare (visto che abbiamo tanti porti, ma per nulla attrezzati) e intervenire per sfoltire il trasporto su gomma che ci sta soffocando. Ci sono, insomma, una serie di problemi da affrontare in ordine alla velocità, ai costi, ma anche alle ripercussioni ambientali del nostro sistema viario. E il dato più imbarazzante è che si tratta non solo di nodi irrisolti da tempo ma che la situazione negli anni è andata via via peggiorando. Faccio un esempio: nel 1970 sul ferrato viaggiava oltre il 20% delle merci; oggi questa percentuale si è ridotta all’8. In pratica: non costruiamo nuove infrastrutture e utilizziamo male quelle che già ci sono. L’Europa però incalza… Infatti. C’è il progetto delle reti transeuropee dei trasporti; c’è uno spostamento di attenzione cui anche l’Italia ha contribuito in direzione delle periferie dell’Unione, sia per rimediare ad una sorta di sindrome da soffocamento che comincia a manifestarsi nella cosiddetta mittel-Europa, sia per evitare la necrosi delle arterie decentrate. Tutto questo aumentando non solo il finanziamento dal 12 al 30%, ma anche prevedendo alcuni assi ferroviari molto importanti: penso alla Berlino-Palermo . Ma penso anche alle autostrade del mare. E le risorse comunitarie sono sufficienti? Certamente no. Anche l’Italia dovrebbe fare la sua parte. E invece non è affatto chiaro come questo Paese programmi il suo sviluppo: i soldi non ci sono, nessuno li procura, nessuno si pone neppure il problema. Queste opere devono essere avviate entro il 2010, ma siamo ancora a “Carissimo amico”… Voi, come sindacato, cosa proponete? Chiediamo di aprire un confronto serrato con il Governo e tutti i soggetti interessati. Ma chiediamo anche di inserire – e questo è un altro passo importante – tutta la programmazione regionale all’interno del quadro di sviluppo delle direttrici transnazionali, così da collegare i progetti di sviluppo locali alla realizzazione del piano europeo dei trasporti. E quali iniziative pensate di mettere in campo per sostenere queste richieste? Già l’assemblea unitaria dei nostri delegati il 10 marzo e le assemblee nei posti di lavoro, oltre allo sciopero generale in Sicilia del 26 marzo, sono un modo per sostenere le nostre richieste sul fronte del rilancio del sistema-Paese nel suo complesso. Parliamo dei trasporti, dunque, ma anche dell’innovazione tecnologica, della ricerca, del Mezzogiorno, della scuola e della formazione come capisaldi di un’azione forte e concertativa. Un’azione di cui il sindacato si fa promotore, puntando non solo su una piattaforma unitaria ma anche sulla volontà di confrontarsi con tutti i soggetti. Anche col diavolo, se il diavolo è disposto a discutere con noi. Altrimenti bene fa il sindacato ad attuare lotte a ritmo continuo, così da creare un clima di alleanze che spezzi questa congiura del silenzio su temi decisivi per il Paese. Più che del rifacimento della faccia del premier, insomma, bisognerebbe discutere del rifacimento dell’Italia. Mettendo in agenda un discorso realistico. Che forse passerà anche attraverso “più tasse” (piuttosto che “meno”, come da troppi anni si dice). Tanto più che lo sviluppo del Paese, nelle attuali condizioni, non può che essere sostenuto in primo luogo dalla finanza pubblica. In questo quadro anche le tasse diventano uno snodo centrale delle politiche di riequilibrio che il sindacato va sostenendo.

Ester Crea

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