di Vanni Petrelli
È in questi giorni in Italia Han Dongfang, considerato il “Walesa” cinese. Attivista dei diritti dei lavoratori in Cina e per questo motivo costretto all’esilio, durante le proteste di piazza Tienanmen del 1989, Han fondò il primo sindacato indipendente, istituito come alternativa al sindacato “giallo” controllato dal governo. La repressione, però, fu durissima: il sindacato fu sciolto ed Han fu catturato ed imprigionato per 22 mesi senza processo, ed in carcere rischiò la vita per aver contratto la tubercolosi. Liberato, dopo un periodo negli Stati Uniti, necessario per curarsi, fece rientro in Cina, ma fu nuovamente arrestato ed espulso nella vicina Hong Kong, dove vive tuttora. Nel 1994 ha fondato il China Labour Bullettin, attraverso il quale informa i lavoratori di tutta la Cina. Inoltre si avvale delle frequenze di Radio Free Asia per raccogliere testimonianze dai lavoratori cinesi e per organizzare le proteste sindacali. In Italia ha partecipato a numerose iniziative organizzate dalla Cisl, e a Pistoia è stato insignito del Premio La Pira.
Qual è oggi la situazione degli oltre 500 milioni di lavoratori cinesi, e cosa comportano le differenze nelle diverse zone del Paese? Per esempio Pechino e Guangdong hanno recentemente aumentato il salario minimo del 22% e del 18%.
In Cina lo stipendio minimo non è definito su scala nazionale ma deciso dalle varie municipalità. La stessa assicurazione sociale è fondata sul livello di stipendio, e questo comporta diverse coperture a seconda del salario. Questa situazione rappresenta un grosso problema: le compagnie tendono a delocalizzare a seconda degli stipendi, e impiegano lavoratori che vivono in zone con stipendi più bassi e li mandano a lavorare in altre zone, dove la manodopera sarebbe più cara. La cosa positiva è che la presenza delle industrie non è più limitata ad alcune zone, come il Guangdong, al confine con Hong Kong, ma si sta lentamente spostando verso il centro ed il nord del Paese, e con essa si muove e cresce lo spirito di lotta. A maggio a Guangdong il salario minimo è passato a 1550 yuan, circa 250 euro. Gli operai quando contrattano cercano di avere una quota maggiore del salario minimo, ma le imprese sanno già in anticipo quale sarà l’aumento e si adeguano ad esso. In questo modo i lavoratori ottengono sempre il minimo deciso dalla municipalità, non un soldo in più.
Secondo le stime in Cina ci sarebbero circa 1.500 aziende italiane. Qual è la situazione dei lavoratori cinesi impegnati in queste realtà produttive?
Non abbiamo conoscenza di condizioni diverse dei lavoratori a seconda della nazionalità dell’azienda. Sappiamo soltanto che le multinazionali si vantano di applicare la responsabilità sociale d’impresa adottando codici di condotta. Ma si
tratta solo di un modo per vantarsi di essere migliori degli altri, di fatto non ci sono migliori condizioni di lavoro. L’unico modo per ottenerle è la negoziazione collettiva, a prescindere dalla nazionalità dell’azienda.
La normativa è in evoluzione, ma al momento non esiste un diritto di sciopero. Si sta lavorando per introdurlo?
Non esiste una legge che disciplina il diritto di sciopero, la legislazione cinese non lo riconosce anche se nei fatti esiste già. Noi, però, non spingiamo per avere una legge, perché se la dovessero promulgare sicuramente si vieterebbe ogni tipo di sciopero. Preferiamo fare pressioni per ottenere un sistema di contrattazione collettiva, e una volta che riusciremo ad introdurla ci batteremo perché il diritto di sciopero venga riconosciuto.
Il sindacato come può aiutare la tua organizzazione e, in generale, i lavoratori cinesi?
L’Iscos ci sta già aiutando da tanti anni, e sostiene anche i nostri partner in Cina. Spero davvero che continui a farlo. Stiamo lavorando per la creazione di una piattaforma ‘virtuale’ su internet, in inglese e in cinese, attraverso la quale legare e mettere a confronto le diverse esperienze del movimento sindacale internazionale con quello che accade in Cina. Ogni sindacato straniero dovrebbe avere informazioni sulle condizioni di lavoro dei cinesi, e ogni lavoratore cinese dovrebbe poter avere accesso alle informazioni sulle lotte dei sindacati all’estero. Sarebbe auspicabile che i sindacati stranieri finanziassero la realizzazione di questa piattaforma ed è indispensabile che partecipino al progetto. Inoltre alcune sigle hanno rapporti con il sindacato cinese, quello ‘governativo’: è accaduto anche in Italia, ed è bene che ciò non avvenga.
Sono credibili le aperture del Partito Comunista Cinese, che nel recente Plenum ha definito decisivo il ruolo del mercato e del privato nell’economia nazionale?
So che i giornali in tutto il mondo hanno divulgato queste notizie. I corrispondenti esteri hanno i propri interessi, ma in un documento le conclusioni sono tante, e dipende da quali si decide di sottolineare. È da tempo che si parla di possibili evoluzioni economiche, ora si arriva a mettere sullo stesso piano le imprese statali e quelle private. Dal nostro punto di vista non cambia nulla, non ci sono differenze per i lavoratori a seconda che il datore sia pubblico o privato. Invece ci sono due elementi del documento diffuso a conclusione del Plenum che vorrei citare: l’introduzione di un sistema di ridistribuzione della ricchezza, per ridurre le diseguaglianze, e il maggiore spazio che si intende dare alle organizzazioni non governative della società. Si tratta di due elementi importanti per la nostra azione.
Anche l’ingresso della Cina nel Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani è una buona notizia?
Certo, perché dimostra che la situazione si sta lentamente evolvendo. Prima il popolo cinese era all’oscuro di quello che accadeva. Ora, anche se i social network restano vietati, con internet è possibile informarsi. Se la Cina, in una sede come quella dell’Onu, annuncia aperture, i cinesi lo verranno certamente a sapere e ne chiederanno conto.
Che ricordo hai del tuo periodo di detenzione in carcere?
Si è trattato di un’esperienza unica, dalla quale ho provato a ricavarne degli insegnamenti. Senza quel passaggio della mia vita non sarei quello che sono, ho imparato tantissimo sulla debolezza umana, sia sulla mia che su quella di chi mi era intorno. Ho imparato cose impensabili da apprendere in qualsiasi Università.
Quale sarà la prima cosa che farai quando potrai tornare in Cina?
Andrò sulla tomba dei miei genitori, mio padre è morto durante il mio esilio e non ho potuto partecipare ai funerali. A mia madre, che quando ero giovane mi diceva sempre che avrei dovuto aiutare gli altri, le racconterò cosa sono diventato oggi. Lei non ha potuto vederlo, ma sono certo che mi ascolterà.
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(si ringrazia Jérémie Beja per la traduzione)